Capitolo V
(trascrizione a cura di
Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
Divieto di
suonare
le campane nelle chiese. Interruzione
delle funzioni religiose e chiusura
delle chiese, trasformate - così
come i conventi - in ricoveri per truppe e depositi Crescendo il rimbombo
del cannone d’una parte all’altra, col commune detrimento, lunedì 14 di
novembre sudetto, fuor d’ogni aspettazione, si proibì universalmente che nelle
chiese e conventi di questa città non si suonassero più campane né di giorno, né
di notte, sotto gravissime pene. Tanto che nemeno si puoteva sonare un
campanello per ascoltare il sacrificio della messa gli fedeli, nonché le campane
grandi per qualunque solennità. Se questa proibizione avesse recato disconsuolo
a tutti gli cittadini, si rimette all’intendimento delle persone savie. Oltreché si venne a disperdere la frequenza
delle chiese, tanto più che la maggior parte di esse stavano sempre serrate,
sembrando un ricovero di ladroni, senza frequenza delle funzioni ecclesiastiche
ed esercizij spirituali, avendosi dell’intutto tolte tante e tante
congregazioni e devozioni giornali così publiche, come private. Oltreché molte
chiese servirono per abitazione delle truppe inferme e reposto di provisioni,
come furono il Duomo maggiore, il monastero di donne del Santissimo Salvadore,
la chiesa della Santissima Annunciata e quella del Santissimo Sacramento nella
Cittadella. Come pure quelle di Santa Caterina, Sant’Anna, San Rocco, San
Leonardo, della Immacolata Concezione, dell’Ospidale grande, di Giesù e Maria
la Vecchia, di San Crispino, di Santa Maria della Pietà e molt’altre. E benché
le chiese di tutti li conventi avessero remasto aperte, gli loro dormitorij,
camere, cortili ed altre stanze, pure della parte di sotto, furono piene di
truppe e loro officiali, restando gli poveri Padri a tre e quattro in una
picciola celletta.
Bando per il cambio di valuta delle monete
spagnole (doble). Il comandante Missegla continua a mantenere il comando
nonostante il ritorno in città del suo superiore marchese d’Andorno Giovedì li 17 del medemo
novembre si promulgò un altro bando publico, d’ordine del signor Generale
Carraffa, che tutte le doble di Spagna si valutassero a tarì quarantacinque per
ogn’una di esse. Sabbato li 19 di detto mese venne in questa il signor Generale
Marchese d’Andorno delli regimenti di Piemonte e Savoja, quale s’avea
trattenuto da più mesi nella Cittadella di Messina come comandante in essa. E seguita
la resa della medema a patti, dal detto signor Generale ed altri officiali che
stavano in quella per la sua defensione, retornò in Milazzo. E benché fosse
stato questo signor Generale da parte della maestà di Vittorio Amedeo, nondimeno
proseguì il dominio da comandante il signor baron Missegla come pria, con tutto
che fosse tenente coronello inferiore al sudetto signor marchese d’Andorno. Bensì
sempre dal signor di Missegla si pratticava il tutto con l’intelligenza di
quello, come suo superiore nel posto militare.
Continua
l’abbattimento disposto dal Wallis di fabbricati civili per esigenze difensive,
tra i quali quello prescelto per edificare la chiesa di S. Cristoforo Dirupato il
menzionato quartiero nella Marina (come si disse) - sino alla prima vanella
della casa del Sacerdote Don Giacomo Volpe, colla ruina di tredeci case tutte
solerate con più stanze ed officine, unitamente con altretante case collaterali
dalla parte di dietro, essendovi altra strada principale, reducendosi tutte le
mura per terra, restando in alcune alcun pezzo di muro, forse per distinguersi
il sentiero d’una all’altra, o pure per non retrovarsi nelle reliquie remaste
alcun pezzo di legno, da dove si puotesse saziare l’ingordigia delli soldati che
furono deputati alla demolizione delle sudette case - pure s’incominciò a
dirupare altro quartiero di case da dietro delle sfabricate. Anzi, per aversi
di alcuni particolari gentiluomini della città interposto le loro suppliche al
signor Vallais, generale, particolarmente dalli reverendi signori arciprete e vicario
foraneo, che non si demolissero le loro case in detto quartiero, non fu
possibile dar sodisfazione al detto signor Vallais, volendo che s’eseguisse
l’ordine dato, coll’asserzione che in ogni modo si facesse campagna rasa sotto
il Quartiero delli Spagnuoli per benefizio della città ed aver campo le truppe
per defendersi. Il che non si potea eseguire, retrovandosi dette case in piedi,
puotendo servire per ricovero del nemico tutte le volte che per disgrazia
avesse entrato nella parte inferiore d’essa città (il che sempre si giudicò
pretesto).
Inoltre,
non contento il signor Vallais della sudetta demolizione di case, pure ordinò che
si dirupassero l’altre case che seguivano nella Marina, da dove s’avevano
dirupate alcune case sino alla chiesa di San Giacomo. Bensì non s’affettuò
secondo la sua determinazione, ma per insino all’altro quartiero che terminava
all’altra vanella della casa di Francesco Impallomeni, con aversi pure demolito
tutti gli altri quartieri dalla parte di dietro di detta Marina, proseguendosi
sin al quartiero del Casale Grande, tanto che si numerarono da più di [lacuna nella copia, ndr] cento case,
anzi più, delli più megliori abitazioni che si retrovavano in città. E nel sito
più salutifero e del maggior commercio, anzi, retrovandosi nella ripa del mare
in detta Marina due case, l’una deputata per edificarsi la chiesa di San
Cristofaro, avendo la sua santa imagine in una conetta ad una cantonera di casa
a dirimpetto della chiesa da edificarsi, pure queste furono demolite.
La caduta d’un
muro durante l’approvvigionamento di legname dai tetti delle case provoca la
morte di un soldato ed il ferimento di molti altri. Il Wallis ordina la
demolizione di tutti i fabbricati sottostanti il Quartiere degli Spagnoli,
lungo l’odierna via Umberto I, precisamente dalla chiesa di S. Margherita
(odierna chiesa di S. Caterina), che aveva il soffitto dammusato, alla chiesa
di Gesù Maria la Nuova. E s’osservò un caso lacrimevole e di pietà: che
volendo gli soldati togliere da dette case un pezzetto di legno per proprio suo
proveccio e facendo forza per svellerlo dal muro, nell’instante tutto sudetto
muro si precipitò con l’uccisione d’un soldato, e molti restarono feriti. Ed il
peggio fu che restò sepolto l’ucciso sotto le pietre e nemeno s’ebbe cura di
disotterrarsi per sepellirlo in luogo sacro, per onde recò per più e più giorni
un maligerissimo odore il cadavere. Avendo seguito l’istesso in alcun altri
soldati, in parte uccisi e parte feriti, nello sfabricare altre case per
l’ingordigia di lucrarsi d’un pezzo di legno, perlochè restò puoco meno della
quarta parte della città sfabricata. E benchè in alcune casa avessero restato
le mura, o in tutto o in parte in piedi, seguiti doppo validissimi venti quasi
tutte si precipitarono per terra, restando due quartieri campagna rasa. E tutte
le pietre d’intaglio di balconi, fenestre, porte e ferrate in pezzi rotte.
Inoltre, per annichilarsi dell’intutto la città, si diede l’ordine dal detto
signor Vallais che ancora si demolissero tutte quelle case che si retrovavano
di sotto il sudetto quartiero delli Spagnuoli, principiando dalla chiesa di
Santa Margherita per insino la chiesa di Giesù e Maria la Nuova, tanto dalla
parte di sopra, come di sotto, col motivo d’aver il sudetto quartiero il campo
aperto per tutte l’invasioni che tentassero gli Spagnuoli. Tanto che si demolì
una strada la più megliore della città, collo spazio di caminar di pari cinque
carrozze adaggitamente. E nemeno restò illesa la sudetta chiesa di Santa
Margarita (della quale prendeva nome il quartiero), con tutto che in essa non
s’avesse retrovato un pezzo di legno, poiché era costrutta tutta a damuso reale
anticamente: e per diruparsi fu necessario formar fornelli per ogni lato con
quantità di polvere per seguire la demolizione.
Si iniziano a
conservare le tegole delle case in corso di demolizione per destinarle alla
costruzione di forni
S’osservò, di più, che se prima nel diruparsi le prime case nella Marina non
s’ebbe riguardo di conservarsi nemeno un canale, con aversi redotto tutti in
pezzi, gettandosi dalli tetti nel suolo.
Poscia,
principiandosi a diruparsi le case nel detto quartiero di Santa Margherita,
tutti li canali con ogni studio si discesero in terra, custodendosi per la
fabrica di più e più forni per il pane delle truppe tudesche di fanteria e
cavalleria nel Capo della città ed in essa, che pure si descriverà.
La Battaglia di Milazzo del 15 ottobre 1718 descritta in una delle principali fonti dell'Assedio
Armistizio interrompe
le ostilità appena due ore, quanto basta per favorire scambio dei prigionieri. Ulteriori demolizioni di fabbricati per
esigenze difensive nella porzione centrale dell’odierna via Umberto I. E ancora
da Porta Messina, ossia dall’odierna via Regis, al convento del Carmine, sia
lato mare che lungo l’attuale via Domenico Piraino. Demolizioni anche
dirimpetto la chiesa di S. Giacomo e lungo l’attiguo vicolo (oggi via Ryolo di
Fontanelle) Martedì li 29 del medemo novembre seguì tra li due eserciti un armestizio in mezzo le
trinciere per lo spazio di ore due doppo vespro, il che seguì il mercordì il
giorno seguente li 30 di detto mese, avendosi discorso tra gli officiali d’una
parte e l’altra. E non si penetrò la cagione, solo si disse che seguì per
cambiamento di soldati d’entrambi prigionieri, così nella battaglia fatta nella
Piana, come in altre parti.
Di
più si fecero demolire molt’altre case nella medesima strada reale [odierna via Umberto I, ndr] della parte
più inferiore nel quartiero nominato di Lovarà e di Porto Salvo, tanto d’innanzi
come da dietro, sfabricandosi inoltre tutto il quartiero nominato
dell’Argentieri, qual dava nelle mura della città dalla parte di Libeccio e
Ponente. E finalmente tutti quelli magazeni spaziosi e case grandi che erano
situati dalla Porta di Messina per insino al convento del Carmine dalla parte
di sotto che davano nella Marina, e per insino al palazzo dei signori di Baele
a dirimpetto di detto convento della parte di sopra per Ponente, oltre altre
case nel Piano di San Giacomo, sempre col pretesto d’esser molto profittevole
facendosi campo aperto. E per non dar occasione alli Spagnuoli, in caso che
entrassero nella città, d’aver alcun ricovero e non essere scoverti dal
cannone, oltre delle sudette case si demolirono molte e molt’altre case nella
città, specialmente quelle nelle quali non abitavano persone o per aversi
retrovato nel Capo per timore, o nella Piana per necessità o volontariamente, o
in altre parti per contingenza.
Di
più si demolirono tutti quei magazeni che si retrovavano nella vanella di San
Giacomo, con tutto che di questi in parte remasero le mura in piedi: il
restante tutto si sconquassò, prendendosi solamente li canali e tutta la
legname così delli tetti e solari con le tavole, come tutte le porte e fenestre.
Ed altro non si scorgea che molte cataste di legni in più lochi deputati, nelli
quali continuamente travagliavano molti maestri e cittadini - e Tudeschi, e di
Piemonte e di Savoia - nella fabrica di Palaccioni ed altri ordigni di guerra.
Inoltre, si diede ordine che tutte quelle case che esistevano nel Capo della
città tutte si scuoprissero, solo per togliersi la legname: che più si può
dire! Seguirono tanti inconvenienti ed afflizioni dalli poveri cittadini
patite, che raccontandosi rassembrano incredibili: e pure è la verità.
Bando obbliga i
cittadini alla consegna di legname. Danneggiati (e poi demoliti) i fabbricati
della Tonnara di Milazzo. Confisca - anche alla Tonnara del Tono - delle
cordicelle delle reti impiegate nella pesca del tonno allo scopo di legare le fascine
destinate alle fortificazioni. Distrutti i palischermi delle suddette tonnare. Riflessioni
del Barca sulle privazioni inflitte ai Milazzesi Che più? Da
principio si gettò bando publico che tutti quei che avessero nelle loro case e
magazeni (senz’eccettione alcuna) qualsivoglia sorte di legname, tavole e botti,
fra breve termine li dovessero uscire innanzi le porte di dette case o magazeni.
Perlochè, se apparea gioiosa la veduta di tante botti, tavole e legni per le
strade, d’una parte, se si consideravano, dall’altra, l’angustie e dolori delli
cittadini, s’avrebbe intenerito per compassione non che un cuor di Scita, un
marmo. Che più può dirsi? Si scassarono dal principio dell’Assedio delli
Spagnuoli, benché poscia dell’intutto si demolirono, quei magazeni che si
retrovavano nella Tonnara di Melazzo. E ciò pria che se ne avesse di tal posto
servito l’esercito nemico. Come pure quei magazeni nella Tonnara del Tono posti
alla ripa del mare nel Capo da parte di Ponente, solo per togliersi tutte quelle
cordicelle per farsi rete in tempo di pescaggione di tonni, ad effetto che con
esse si legassero migliara e migliara di mazzi di fascine per fabricarsi più
bastioni e per riparo delle porte di Messina e di Palermo, e da dentro e da
fuori, con molte trinciere in più luoghi. Che più dir si può? Si condussero
tutti li Palaschermi seu barconi grandi per servizio di dette due tonnare, con molto stento e fatiga, nella
ripa del mare da dietro sotto il convento di San Papino, quali doppo dalle
truppe si disfecero per uso proprio. Che più? Nella cittadella ed altre parti
della città tutte quelle case che non erano abitate, per essere state lasciate
dalli padroni, si presero dalli officiali, così Tudeschi come di Piemonte e di
Savoja, per ingordigia delli soldati e per lucrarsi delli legni e del mobile
remasto. Tutte si consumarono con togliersi le porte e fenestre svelatamente,
senza potersi aprir la bocca dalli poveri cittadini interessati, anzi, in molte
di esse , nelle quali abitavano officiali, solo si conservavano intiere le
stanze ove dormivano ed il resto, andando in rovina, si predava liberamente con
restar casaleni. E non si poteva nemeno lamentare. Che più?
Taglio di tutti
gli alberi all’esterno di Porta Messina ed a Ponente lungo le mura urbiche allo
scopo di evitare che i nemici potessero ripararsi dalle cannonate
austro-piemontesi e per ricavare nel contempo fascine da destinare alle
fortificazioni. Taglio eseguito anche al Promontorio, ove furono destinate alla
preparazione di fascine persino le radici delle viti Nel principio
dell’imbrocco fatto dalli Spagnuoli nella Piana s’incominciarono a troncarsi
tutti quelli alberi di celsi e domestici che si retrovavano fori la porta di
Messina dalla parte di Levante. Poscia quei che erano fori le mura dalla parte
di Ponente nel Purracchito, con tutte le case, e doppo, entrato l’Assedio, non
solamente si tagliarono tutti l’alberi sin alle radici che erano in dette
contrade, pure nella città, raccogliendo li legna per far fascine al servizio
militare. Col pretesto dell’officiali che tolto l’impedimento di detti alberi
in nessun modo, entrando gli Spagnuoli in città, si potevano coprire dal
cannone. Che più? Tutti l’alberi che si retrovavano in detto Capo furono
tagliati, con togliersi doppo pure le radici dalli soldati per uso proprio. E
pure svellersi li piedi di viti fruttiferi che erano in Capo col di far
fascine.
Consuete riflessioni
contorte e sgrammaticate dell’autore sull’obbedienza dei cittadini malgrado le
privazioni subite Stimo
conveniente farsi alcune reflessione sopra li gravi interessi patiti da questi
cittadini, che realmente si potevano scemare, per essi sedarsi al presente
publicandosi la loro ragione, siccome quando processero tacquero per necessità
e timore, anzi se si adoprarono con ogni sommissione, per non procedersi con
tanta inciviltà, nemeno si puotè alcanzare [conseguire,
ndr] che
si trattasse con tranquillità e con alcuna ancorché minima sodisfazione degli
interessati.
Che
fosse stato necessario soffrirsi molti patimenti dagli cittadini nell’urgenze
della presente guerra, così per trattenimento delli signori generali ed
officiali cògli loro reggimenti nelle loro case, colla dispensa di tutto il
loro mobile, come nel rendersi obedientissimi vassalli ed inoltre tolerare gli
ordini indiscreti d’alcuni ministri senza commissione espressa dalli loro
signori generali comandanti. Tanto più che l’intenzione dell’Augustissima
Cesarea e Catolica Maestà sempre ha processo cògli loro vassalli da Padre
clementissimo, come di continuo s’ha sperimentato in altri Regni verso quei
Popoli che s’hanno volontariamente reso obedientissimi. Il che s’osservò in
questa città, non badando nemeno al proprio suo trattenimento per restar
gustosi detti signori officiali, con l’offerta della propria vita e spargimento
del sangue per gli avanzi del Dominante, senza replica alcuna.
E
finalmente, ingerendosi alla cieca in tutto alla disposizione degli signori
comandanti per complire col loro dovere ed onore, furono azzioni giustamente meritate
da un monarca padrone e necessarie adoprarsi dalla fedeltà e vassallaggio di
questi poveri cittadini, soggiacendo pure alla morte violente per tante bombe
scagliate e gettate e cannoni disparati a migliara contro essi per tutto il
tempo dell’assedio, puoco meno d’anno uno.
Il
che coll’esperienza si vidde manifesto per restar molti di essi trucidati e per
la devastazione di tutta quasi la città, e per il disparo di detti cannoni e
bombe, e per formarsi in alcune parti fortini, trinciere, linee e contrascarpe,
e per altre contingenze necessarie al sevizio reale. Si puotè tutto ciò
tolerare e per genio, o per necessità o meglio per obligo d’un popolo fedele.
Che doppo, non avendosi considerazione al buon oprato di questo, s’avesse
processo ad opre non convenienti da farsi nemeno contro gli nemici d’alcuni
officiali indiscreti.
Nonché
d’alcune truppe e squadre delli più infimi soldati che si ritrovavano in questa
città, e senza espresso ordine e licenza delli signori generali e comandanti
principali, per avere stato sempre questi signori benignissimi e con la civiltà
umanissima concedente al loro gran merito.
Il Barca,
facendo seguito alle sue riflessioni, elenca alcune vessazioni comunque
tollerate dai Milazzesi. Ad esempio quelle scaturite dai provvedimenti del Missegla,
coi quali si ordinò ai cittadini di abbandonare le case della Cittadella per
esigenze fortificatorie e di rifornire di viveri le truppe piemontesi,
disponendo l’arresto dei giurati non in regola coi versamenti a favore della Regia
Corte Son
opre che procedendo nell’eccesso o non sono credibili, o raccontandosi
apportano nonché meraviglia, orrore a chi l’intende. E pure, per sfuocamento
della passione delli detti cittadini, è vuopo descriversi alcune.
Primariamente
che son venute l’arme imperiali, dal signor comandante Missegla s’avessero
fatto disabitare dalle loro case l’abitatori nella Cittadella, col devastamento
d’alcune case per fortificarsi essa cittadella. Che dal medemo s’ordinasse che
d’ognuno si contribuisse, secondo la propria abiltà, e vino, ed aceto, e
formaggi, e salumi, ed altri viveri col trasporto in Cittadella per provisione
delle sue squadre e truppe. Che incivilmente avesse fatto sequestrare li
signori spettabili giurati della Città nella Cittadella con altri gentiluomini
da prigionieri, per aver denari per uso delli suoi soldati, col pretesto bensì
essere creditore per conto della Regia Corte della sudetta città. E non
permetter la scarcerazione sin all’intiero pagamento del richiesto. E
finalmente dal medemo signor comandante s’avesse processo con molte e molte indiscretezze
contro gli cittadini (come s’ha raccontato, ed altre che per convenienza si tralasciano).
Con ogni sofferenza si tolerarono da essi cittadini e si stimarono tutte di
puoco momento, col solo riguardo di voler essere veri vassalli del Dominante
con l’annichilamento delli Spagnuoli come loro nemici.
Facendo
ulteriormente seguito alle sue riflessioni, l’autore loda l’obbedienza dei suoi
concittadini anche quando successivamente giunsero in città il Carafa e lo
Zumjumgen
Doppo che sovragiunsero l’arme cesaree col signor Generale Carraffa, e
susseguentemente (questo partito) col signor Generale Zumjunghen, tutti signori comandanti, retrovandosi
sempre dal principio il signor Generale Vallais, con aversi complito da tutti
gli cittadini e d’ogni di loro con ogni sommissione e puntualità - per aver il
carattere di vice regenti della sudetta Cesarea e Catolica Maestà - ingerendosi
a viva forza che restassero tutti sodisfatti dal loro procedimento col servizio
imperiale tanto da essi bramato, rendendosi sempre obedientissimi senza
recalcitrare nell’ordini che se li compartivano ancorché fossero o
rassembrassero alterati o rigorosi, distribuendo largamente le loro abitazioni
con tutto il mobile, contentandosi vivere angustamente in un, ancorché minimo,
tugurio e somministrando con ogni compiacimento il loro dovuto ossequio ed
omaggio, mettendo in non cale pure la loro vita per la quantità di tante bombe
e palle gettate in città con la morte d’alcuni e disfacimento delle loro
abitazioni, oltre la quantità de’ feriti gravemente, e contentandosi
ciascheduno far più servizio a gara dell’altri, ed infine protestandosi goder
al maggior segno a la compiacenza d’essi signori comandanti e sottomettersi a
qualunque occasione in servizio reale e beneficio publico, ed in ogni loro azzione
demostrandosi nelli fatti parzialissimi della Cesarea Maestà, come osservavano
nell’intimo del loro cuore, e con tutte l’altre loro demostrazioni possibili affinché
si penetrasse la loro volontà in un[a] generosa ed inchinata a proteggere - per
quanto le loro forze valessero - e l’affezione, e la promozione, e
l’ichinazione dovuta.
E
tutto ciò, se dalli sudetti signori comandanti in realtà si conoscesse,
dichiarandosi restar pienamente appagati con contento dal procedere delli
cittadini. Come doppo non si diede ordine che questi, almeno restando consolati
coll’applacidimento necessario, non fossero vessati e conculcati dalli loro
inferiori (ancorché officiali) li poveri cittadini, con tante e tante
conculcazioni, flagelli, e gravi interessi che soffersero.
Gli
interrogativi del Barca - purtroppo riportati in modo non sempre conprensibile
- sull’opportunità di talune operazioni militari eseguite in precedenza. In
particolare l’autore lamenta la disparità di trattamento nell’abbattimento dei
fabbricati, visto che qualcuno non fu abbattuto, o l’abbattimento
ingiustificato di edifici (è il caso dell’aerea che avrebbe dovuto ospitare la
chiesa di S. Cristoforo) che non avrebbero arrecato alcun pregiudizio agli
assediati Avendosi
osservato da principio che dal signor Generale Vallais, non contento che
s’avessero demolite le case e magazeni di fori la Porta di Messina (al ché si
poteva assegnar la necessità, potendosi di essi servire gli Spagnuoli) - e pure
si dovea ciò eseguire con più civiltà, dando campo che si conservasse tutto il
mobile che in essi si retrovavano - pure s’ordinò che si demolissero tutte le
case nella Marina di sotto il quartiero delli Spagnuoli, per servirsi del solo
legno e tavole (come si disse).
E
se ciò era inremissibilmente di bisogno, per qual cagione non s’effettuava tal
demolizione con più equità, non dandosi campo a gli padroni di togliere il loro
mobile, anzi colla permissione d’esser tolto dalli soldati e con tutta
indiscretezza?
Inoltre
per qual cagione si permise che tutti li canali si reducessero in pezzi, quando
peraltro si potevano conservare o per loro commodo (come doppo in altre parti
seguì) o delli cittadini proprij padroni?
Di
più, la desolazione di tutta la città, dirupandosi le più megliori case e
magazeni che in essa esistevano, con prendersi li legni e tavole per servizio
militare, col solo pretesto che si demolivano affinché si facesse campagna rasa
e non avessero ricovero gli Spagnuoli nemici, tutte le volte che s’avessero
impadronito della parte inferiore della città?
Quando
peraltro tal procedimento in nessun modo si può defendere con evidenza notoria,
poiché dovendosi far campagna aperta per defensione del quartiero, per il che
processe il devastamento di tante e tante case e nella Marina e strada reale di
Santa Margherita, senz’eccettione
alcuna, tutte le case si dovevano demolire, e non perché si levarono gli tetti
e solari, non remase la maggior parte delle sudette case in piedi, e così
recava più pregiudizio al quartiero sudetto che beneficio alcuno.
Oltreché
si doveva reflettere che, levandosi tutte la case in detta Marina, si venne a
perdere il Porto, specialmente soffiando il vento da Libeccio e Ponente.
Di
più per qual cagione entravano in detta campagna aperta le due case nelle quali
si dovea edificare la chiesa di San Cristofaro nella ripa del mare, quando
peraltro non recavano alcun nocumento alle nostre squadre?
Di
più in che offendeva tutto il quartiero dell’Argentieri posto in luogo
segregato dal combattimento tutte le volte avesse seguito? Quando peraltro se
realmente dovea farsi campagna piana non doveva seguire dispartità, demolendosi
una casa e l’altra remasta in piedi? E concedendosi per mera necessità, che tal
demolizione fosse stata fatta per l’urgenza proposta, da qual motivo si
dovettero demolire tutte le case nel Capo e quelle sotto di esso nella Tonnara
del Tono? Forse queste servirono per farsi campagna aperta?
Ed
inoltre aversi tagliato tutti gli alberi di celsi e domestici non solo per tutto
sudetto Capo, assieme le vigne, e pure le sepali e sentieri, come quelle poche
piante ancorché piccole poste nelli giardini per delicia in essa città dalli
padroni, servirono questi per far campagna, per onde si conosce che seguì e per
li soli legni e per farsi fascine.
Il Wallis non
accoglie l’istanza dei cittadini, che offrono la propria disponibilità a far
pervenire dalla Calabria carichi di legname, pur di evitare la distruzione
delle loro case e lo sradicamento dei propri alberi. Seguono le consuete
riflessioni sgrammatica e poco comprensibili Soggiungendosi che dalli
cittadini, riconosciuta l’urgente necessità che s’avea in città per dette
fascine e per palaccioni per servizio reale, più e più volte con ogni
sommissione si pregò al sudetto signor generale Vallais che tutti gli padroni
delle case di suo ordine da diruparsi, come pure dell’alberi, s’avrebbero
volontariamente composto a far venire da Calabria con ogni celerità più e più
barche piene di legnami a sue proprie spese ed al doppio di quelli che
s’avrebbero tolto dalle dette sue case ed alberi che potevano servire per
oprarsi. E nulladimeno non furono intese le loro supplichevoli instanze,
volendo in ogni modo il signor Vallais, generale, che s’eseguisse il suo volere.
Perloché
se non s’avesse riconosciuto apertamente il suo fervente zelo in servizio dell’arme
imperiali ed in beneficio di questo publico, al quale sempre si demostrò
parzialissimo, domentre s’esercitava con ogni attenzione, zelo, e vigilanza, e
di giorno e di notte, per l’avanzi della Cesarea Maestà, esponendosi ad ogni
qualunque periglio con ogni intrepidezza ancor della vita, anzi con tutta
placidezza agevolando l’urgenze di questo publico oppo l’altri signori generali
ed offiziali, e se d’una parte ordinava queste demolizioni, dell’altra
compassionava gli interessati, protestandosi non puotersi differentemente
oprare. S’avrebbe affermato che processe come nemico di questa città per
annichilirla dell’intutto o per altra cagione ignota fuor del dovere. Ma questo
non puotendosi in nessun modo, nonché dirlo, pensare, dunque possiamo
ragionalmente attestare che la disposizione divina per le nostre gravissime
colpe cossì permise senza interpretazione dell’evento successo, se seguì
giustamente o d’altra conformità.
Il generale
Zumjungen, previa petizione, risparmia
le viti sopravvissute al Capo, inutilizzabili per fare fascine Il che si
conferma: giacché scippati tutti gli alberi in detto Capo per fascine,
tagliandosi dalli soldati per uso proprio le viti delle vigne, si ricorse al
signor generale Zumjunghen, comandante di tutte le truppe tudesche,
si compiacesse dar ordine che almeno non si disperdessero in avvenire le
restanti vigne in detto Capo, giacché le viti di esse non potavano servire per
fascine. E si servì detto signore applaudere a tal ragionevole petizione senza
ostacolo alcuno, del che si comproba l’antedetto che il sommo Dio, per suo
giustissimo giudizio, così dispose, affinché si venisse con più circo[s]pezione nel suo santo
servizio.
Devastazioni da
parte austriaca, ma anche da parte spagnola, colla distruzione di tutte le
vigne comprese tra la Tonnara di Milazzo e la contrada di S. Giovanni, avanzando verso la Piana lungo il campo
spagnolo, ossia da Ponente (c.da Casazza) sino a contrada Barone e continuando
ancora sino al lungomare di Levante, in prossimità di contrada Parco Oltre le
sudette tribulazioni delli poveri abitatori, oltre gli continui timori di
momento in momento, per causa delle bombe gettate dalli Spagnuoli nella città -
così di giorno, come di notte - e della quantità di cannoni disparati dalli
medemi, offendendo gli cittadini nonché nell’abitazioni, colla morte repentina
(come s’esplicherà), li quali pazientemente fu vuopo tolerarsi, non potendosi
evitare.
Pure
insurgettero maggiori cordogli e dolori che sormontarono nell’eccesso. Poiché
s’osservò che siccome dalli tudeschi non solamente si diruparono le case degli
abitatori in più e più parti con quartieri intieri, pure si tagliarono tutti
gli alberi con la maggior parte delli piedi di viti nel Capo e nella città
istessa. Altretanto li Spagnuoli rovinarono tutti l’alberi domestici e celsi
che esistevano nella Piana, unitamente con tutti li canneti per tutto il
territorio. Anzi, dispersero e rovinarono tutte quelle vigne che erano dalla
contrada di San Giovanni e quella della Tonnara vicino la porta principale
d’essa città, per insino all’altra del Barone dalla parte di sopra d’una ripa
di mare da Levante sin all’altra di Ponente, numerandosi [lacuna nella copia, ndr] da miglia [lacuna nella copia, ndr] di circuito, anzi più.
Le devastazioni
giungono ben al di là dell’odierno territorio comunale di Milazzo Reducendosi il
tutto in terreno calpestrato da tante e tante truppe, e di fanteria e di
cavalleria, per tanti mesi, senza puotersi discernere la distinzione che pria
esisteva d’un luogo all’altro, essendo stato fatto un campo d’un esercito
intiero di più migliara soldati di cavalleria e fanteria. Bensì per tutto
sudetto territorio dalla parte di sopra del campo la maggior parte di vigne
pure fu svelta dal calpestrio de’ cavalli e continuo camino di tante squadre e
soldati e per il continuo passaggio e trasporto di cannoni, mortari, di bombe
ed altri ordigni di guerra. Dirupate inoltre tutte le case, casini ed altre
stanze che in esso territorio si retrovavano. Il che seguì ancora fori d’esso,
dentro il fegho di Cattafi seu l’Archi, dalla parte di Levante, e territorio
della terra di Mirij, dalla parte di Ponente. E per non ritrovarsi più che
svellere dal suolo si proseguì tal devastamento d’alberi e vigne per insino
alla città di Puzzo di Gotto e casale di Barsalona, con aversi demolito la
chiesa della Madre di Dio sotto il titolo del Piano ed altre nel territorio del
Castro sotto titolo di Santa Maria dell’Acquacalda, con tutti li casamenti in
dette contrate. Perloché, se si volessero descrivere le specialità d’uno cossì
copioso devastamento, necessitarebbero più volumi. Talché questo colpo sembrò
molto funesto a tutta questa città tanto che l’afflitti cittadini reflettendo
l’instante pericolo della loro vita, il quale di continuo si vedeva per gli
dispari di tanti cannoni e bombe gettate dal campo spagnolo nemico, colla morte
di molti di essi e soldati. E poscia che se per miracolo avessero scampato la
vita in avvenire non avrebbero più facoltà per sostentarsi, poiché tutto il
volsente delle sue rendite consisteva nelli frutti annuali che esigevano dalle
loro vigne, alberi di celsi e fruttiferi che erano in detta Piana. Quali tutti
furono svelti, tagliati, disfatti e redotti in terreno nemmeno atto a potersi
cultivare doppo molt’anni. Onde sembravano insensati. Ed inoltre non potevano
attendere a rifocillarsi per non morir d’inedia per la scarsezza di viveri.
Gli Spagnoli
attaccano la Piazza di Milazzo dalla Piana, avendo abbandonato il proposito di attaccare
dal Capo a causa della perdita della propria flotta e soprattutto a causa del
continuo presidio delle coste del Promontorio da parte delle navi militari che
gli Inglesi, alleati degli austro-piemontesi, avevano inviato a Milazzo Avendosi
nell’istesso tempo ingrossato il campo spagnuolo nella Piana con quantità di
truppe di cavalleria e fanteria al numero di 18mila, con aversi fatto oltre la
quantità di molte trinciere e fossate per la loro defenzione. Che doppo
riconosciute, sembrarono essere state fatte con ogni maestria, custodia e
polizia pure dalle nostre truppe e loro signori generali diversi altri fortini.
Uno nella detta Tonnara di Melazzo con dodeci cannoni da battere. Altro nella
contrata dell’Albero con li suoi cannoni dalla parte di Levante e Scilocco. Ed
altri in diversi luoghi per la parte di Libeccio e Ponente, tutti guarniti con
quarantadue pezzi di cannoni ben grossi e di batteria. E diretti verso questa
città. Inoltre tenendo molti mortari di bombe e di pietre.
Perloché
da questi cittadini in generale s’ebbe spavento che senza difficoltà alcuna gli
Spagnuoli avrebbero battuto la città da detta Piana, giaché s’osservò il
preparamento militare e di fortini con tanti cannoni, e di trinciere con tanti
mortari di bombe e pietre. Considerandosi che li sudetti Spagnuoli disperanzati
di poter più assaltare la città dalla parte del Capo (come sempre da principio
si credea) per non poter far più disbarco di truppe in esso Capo, non avendo
guarnizione d’armata navale per esserli stata tutta distrutta dall’altra degli
Inglesi. Ed inoltre detto Capo si retrovava ben custodito, specialmente con
alcune navi inglesi, le quali di continuo erano in guardia del Capo sudetto e
di tutta la costa marittima e del mare sin al Capo di Raisi Colmo per Levante e
per tutte l’isole baleari di Lipari, per insino al Capo d’Orlando per Ponente,
benché alle volte s’allontanassero per far la scorta e guidare tutte
l’imbarcazioni che venivano da Napoli e Calabria provisionate di viveri e
provecci di guerra, per le molte barche corsare a prò delli Spagnuoli.
Cannonate contro
la città il 4 novembre 1718: nuova fuga dal centro abitato dei cittadini, che
si rifugiano soprattutto al Capo E di più per aver osservato essi
cittadini, specialmente quei che abitavano nella parte inferiore della città di
sotto il Quartiero, che dal campo nemico spagnuolo si principiò il disparo di
più bombe con molte cannonate contro la città. Il che seguì venerdì li 4
novembre 1718. Di nuovo la maggior parte dell’abitatori di qualunque condizione
slocò retirandosi nella parte di sopra della città, parte nelle proprie case
che avevano lasciato in abbandono e parte in altre delli loro parenti ed amici,
ma molti e molti, particolarmente donne, si retirarono nel Capo. Numerandosi,
fra l’altre, la signora Donna Isabella Lucifero, moglie del signor Don
Fiderico, colla signora Donna Francesca loro figlia e moglie del signor Don
Paolo Lucifero, unitamente col detto signor suo marito e tutta la servitù,
retirandosi solamente esso signor Don Fiderico, capitano, nel convento de’
Padri Cappuccini. Come pure la signora baronessa Donna Cateria Baeli e
Sanginiti con li signori Don Blasio e Don Giovanni Cirino, fratelli -
conducendo con essi la signora Donna Giovanna, moglie del Don Giovanni - nepoti
di detta signora baronessa, colla loro servitù. Di più il signor Don Pietro
Lucifero con la signora Donna Angela sua moglie e tutta la fameglia. Il signor
Don Francesco Proto de Alarcon con la signora Donna Maria, sua moglie, e
fameglia e molt’altre principalissime persone della città.
La penuria di
abitazioni al Capo - in gran parte occupate dai militari austriaci ammalati in
ricerca di aria salubre - costringe diverse famiglie ad abitare in locali
ristrettissimi, se non addirittura nei pagliai Non
descrivendosi la quantità delli cittadini e maestranza ed altri, potendosi con
verità affermare che generalmente tutti, e nobili, e cittadini, e pleblei,
s’avrebbero condotto al Capo. Ma per non esservi luogo sufficiente per
abitazione, tanto per aversi molte case desolate, come per esser altre possesse
dalli tudeschi retirati o per mutar aere per esser infermi o per esser feriti,
o per proprio uso, pure signori generali di cavalleria, perloché si vidde che
in una sola stanza terrana abitavano cinque fameglie al numero di 32 persone. E
di più alcuni arteggiani e plebei, per il grave timore di non esser uccisi,
pure si retirarono al Capo, formando tugurij e pagliara di cannizze, legni e
frasche per loro abitazioni.
E
benché molto patissero gli retirati, specialmente per la carestia dell’acqua,
non puotendo alcuni pochi fonti correnti somministrarli con sufficienza
l’acqua, tanto più che dovevano servire per beverarsi la quantità delli cavalli
tudeschi che erano di guardia in detto Capo e dell’altri che si ritrovavano
dalla parte di sotto alloggiati, nondimeno soffrirono patientemente queste
angustie, prevalendo al timor della morte. Soggiungendosi che oltre quei che
andarono al Capo in tempo che apparea evidente il pericolo, per causa di non
essere trucidati nella città, pure molti s’avevano retirato nel detto Capo
innanzi la battaglia.
Si
possono riflettere gli gravissimi interessi patiti dalli poveri cittadini così
trasportando il mobile in detto Capo per le necessità più urgenti, come per
aver lasciato l’altro e tutto in città alla descrizione d’ogniuno, tolto quello
o che fu sepolto per non esserli derubbato o trasmesso fori territorio per
conservarsi. Avendosi poscia visto che tutto sudetto mobile si disperse,
restando il nascosto infracidito per tanto lungo tempo ed il rimesso pure o
cambiato o rubbato nella maggior parte.
Gli ufficiali
austriaci si trasferiscono dalla Marina al Borgo per scampare alle bombe,
cambiando continuamente domicilio in cerca di un’abitazione più sicura. Tra gli
altri, Wallis dimora per breve tempo nel Palazzo del Governatore, presto
abbandonato perché anch’esso preso di mira dalle artiglierie spagnole Proseguendo il
campo spagnuolo il disparo delli loro cannoni, col gettito di più bombe
giornalmente e pure nella notte, non solo nelle trinciere delle nostre truppe
che esistevano tanto dentro quanto fori della città, pure contro la Cittadella,
Castello Regio, bastioni e porte e per tutta la città confusamente, li signori
generali ed altri officiali tudeschi, li quali nella maggior parte abitavano nella
Marina e molti di sotto il Quartiero delli Spagnuoli, avendo riguardo alla
conservazione delle loro proprie vite, tutti si retirarono dalla parte
superiore d’essa città e nel Borgo. Tanto che il signor Generale Vallais, qual
abitava nella casa del signor Don Mario Cirino nella Marina, per essere [questa, ndr] tutta discoperta dal
cannone nemico nel forte della Tonnara, si retirò nella casa del signor Don
Costantino D’Amico sotto il convento di San Francesco di Paola, commorando per
più custodia nelle stanze terrane, ove dimorò per pochi giorni per lo spavento.
E doppo albergò nel Palazzo nel quale prima abitava il signor comandante della
città, nel quartiero di Santa Maria la Catena [Palazzo del Governatore, ndr], e, finalmente, nemeno stando con
sicurezza, ascese più sopra, dimorando nella casa del signor Don Antonino Proto
ed Abbati, vicino il convento di San Domenico, nella quale pure si contentò,
per scampare alcun sinistro accidente per il molto fuoco di cannoni e bombe
delli Spagnuoli, d’alcune stanze di sotto e basse. Il signor generale
Groferaich del Regimento di Paraith, tudesco, qual commorava nella Marina in
casa del signor Giovanni Muscianisi, si retirò in quella del signor Pietro
Guerrera, sopra la chiesa di Santa Caterina, bensì colpendo molte palle di
cannoni nella medema casa se ne uscì, retirandosi in un’altra della signora
Donna Diana Perdichizzi, sopra e nel piano del sudetto convento di San
Domenico.
Il conte
napoletano Giovanni Carafa (morto a Venezia nel 1743), comandante supremo delle
truppe imperiali a Milazzo, dimora nel convento di San Domenico o del Rosario,
così come il suo successore generale Zumjungen, nominato all’indomani della
perduta battaglia del 15 ottobre 1718 Il signor generale Ottenghan, tudesco, pure
si retirò in detto convento in una sola celletta, nonostante che fosse esso
convento abitazione prima del signor generale Carraffa e, doppo la sua
partenza, del signor generale Zumjunghen. Il signor tenente coronello Sammech,
tudesco, si retirò nel quartiero di Vaccarella in casa di padron Gaetano La
Rosa, abitando unitamente con esso e la sua fameglia con molta angustia e
strettezza.
Gli ufficiali
austriaci vanno ad abitare a Vaccarella e nelle contrade del Borgo, di gran
lunga più sicure e lontane dal tiro delle artiglierie Il che
osservarono molt’altri signori officiali tudeschi per il medemo timore e nella
maggior parte lasciando l’abitazioni che pria avevano. Retirandosi molti e
molti più lontano nella contrata di Vaccarella o più sopra in quella della
chiesa di San Giuseppe o almeno nel Borgo, ancorché stessero in picciole
casuncule terrane, sembrandoli che si stava con più sicurezza e - se non in
tutto, almeno in parte - con minor pericolo delle palle di cannoni e bombe che
gettavano di continuo gli Spagnuoli, con grandissimo danno così delli soldati,
come delli cittadini, restando alcuni morti e molti gravemente feriti, come in
appresso si dirà.
Il
retiro delli signori generali, coronelli ed altri officiali, nella maggior
parte delli tudeschi ed in parte delli savojardi e piemontesi, fatto per
manutenersi con più cautela - per quanto si poteva - a non inciampar in qualche
disgrazia per causa del disparo de’ cannoni e bombe, dà motivo di ponderarsi
che nella parte inferiore della città, particolarmente di sotto il Quartiero,
esisteva un timore non ordinario in tutti gli abitatori in generale e di
officiali, e soldati, e plebei, affinché disgraziatamente non morissero con una
palla disparata o bomba scagliata che in quantità di continuo - e di giorno e
di notte - si vedevano vibrare.
Perloché,
volendosi evitare, si stimava impossibile, mentre se tutti gli abitanti e
militari s’avessero voluto retirare nella parte superiore della città non si
retrovavano tante abitazioni - ancorché terrane - per commorare, essendo molte
di esser piene e di militari e di cittadini, oltreché in esse da più tempo si
retrovavano gli padroni. Ciò nondimeno affollatamente pretesero tutti retirarsi
nelle contrate o di Vaccarella o di Sant’Anna, o del Giardinello, o del Borgo.
O in altre convicine. Solo per esser un puoco più lontane dal disparo sudetto,
avendosi osservato con evidenza che nelle contrade di San Giuseppe e di
Vaccarella, benché avessero corso più e più palle di cannoni del nemico, mai
seguì alcun danno. E le bombe mai in dette contrate pervennero, o per non
gettarsi in detti siti, opure per non puoter pervenire per esser l’ultimo
confine della città verso la parte opposta. Come pure nel convento dei Padri
Cappuccini.
Militari
austro-piemontesi e civili vivono negli spazi affollati e ristrettissimi delle
case a pian terreno (“terrane”), spesso in seguito a prepotenze, ma in
sicurezza
Onde se li cittadini - o per convenienza o per parentela, o per altro fine
- e gli officiali e soldati - colla
violenza - retornarono nella maggior parte nelle sudette contrate, non essendo
bastevoli l’abitazioni, si meschiarono e paesani ed esteri, tudeschi come
italiani, ed uomini e donne confusamente in una stessa casa, ancorché terrana.
Perloché si retrovava sempre una confusione indicibile. Ed ordinariamente si
vidde che in una medema stanza, ancorché terrana, commoravano gentiluomini e
plebe, e cittadini e marinari, attendendosi solamente ad evitare il grave ed
emminente pericolo della vita per la causa descritta. Ed in alcune case, per la
molta angustia e strettezza, si fece separazione con tavole o cannizze tra li
paesani e soldati, taccando ad ogn’una delle parti divisa pochi passi di
terreno. E pure si stava con alcun sollievo, prevalendo più il vivere con
incommodo speciale che qualunque dovizia coll’evidente pericolo d’incontrar la
morte. E benché si stesse con tante afflizioni dalli poveri abitatori, non
perciò si tralasciava nell’officiali e soldati d’ogni nazione l’indiscretezza,
volendo in ogni modo conculcare e senz’alcuna equità e ragione alli cittadini
con discacciarli dalle loro case, pratticando liberamente e con mali termini
pure contro quei che l’accommodarono con ogni placidezza nelle loro abitazioni,
con darli nonché il mobile e superlettili per dormire, pure tutti gli arnesi
necessarij ed addrizzo per cocinare.
Riflessioni
(invero noiose e contorte, a tratti incomprensibili) del Barca sul decadimento
morale della città
In verità si riguardarono molti metamorfosi non mai intese. E se quelle
d’Ovidio si stimarono sempre favolose, stimandosi solamente l’inventore per la
sua acutezza d’ingegno, queste nella nostra città seguite, per aversi di
presenza ed oculatamente osservate, si compiangono con lagrime di sangue. Con
non metterle in oblio per averne notizia gli posteri.
Oltre
di ciò, se si volessero rammentare distintamente tutti li furti e ladronecci da
tante e tante truppe e squadre di soldati commesse, o non sarebbero credute, o
pure - dandosi alcuna credenza - chi li riflettesse giudicherebbe che li poveri
abitatori avessero rimasto insensati, poiché chi non si risente dell’offese, o
demostra meritarle, o non ha cuore per rintuzzarle. E con tutto ciò dagli
Siciliani, nonché da questi cittadini, questo non si può presupponere, ma la
necessità rassembrò aver pervertito l’ordine della natura. Per onde si vede
essere stato un flagello della mano onnipotente del Sommo Dio, giustamente per
le nostri misfatti sdegnato, e così non è vuopo attribuire tutte queste
afflizioni ad altre cause, per esser da noi meritate.
Il
peggio si è che sin ora non s’osserva l’emendazione, anzi, invece di diminuirsi
gli errori col pentimento, s’aumentano peggiori, poiché nel fervore della
guerra e col pericolo evidente di perder la vita (il che si verificò in molti,
che realmente la perdettero) non si ritrovava più religiosità nelli chiostri e
nel clero, del che si poté arguire la dissolutezza nelli secolari, non
comparendo più fedeltà nemeno tra congionti.
Con
aversi fatto l’usurpar quello d’altrui, specialmente nelle vendite delli viveri
di qualunque sorte, contestandosi le rubberie col pretesto d’aversi patito
molti interessi d’ogn’uno per causa della guerra, colla demolizione delli suoi
effetti urbani e rusticani ed aver remasto povero. Oltre gli ladronecci fatti
dalli soldati.
Onde
tutti si facevano lecito per la commutazione, come meglio li piaceva senza
scrupolo alcuno, ancor con chi non entrava. E benché in più e più assembree
giornalmente tal inconveniente, senz’alcuna ancorché minima scusa, s’avesse
biasimato e non esser permessa tal compensazione per esservi il grave danno
specialmente dalli poveri, nonché soldati, pure della città, non entrando
questi in alcun ancorché minimo latrocinio.
Non
perciò si scemò un tal errore così pregiudiziale, ed a quelli che l’adoprarono
nell’anima, come pure agli poveri che ‘l suffrirono nel corpo. E volesse Dio
che sinora non persistesse l’ingordigia di questi. Dunque come vuol placarsi il
sommo fattore, sormontando gli misfatti, pure col danno speciale delli poveri.
Si
soffrirono di più, oltre l’espressati cordogli e patimenti, altre peggiori
afflizioni, dolori e tormenti, che per esser innumerabili non si possono tutte
descrivere. Essendo il mio principal motivo di brevemente rammentare l’angustie
di questa mia povera città, nondimeno siami permesso esprimerne alcune
speciali.
Credo
non esser picciolo flagello non potersi sonare più campane, al che si diede
principio a 14 novembre 1718 (come si notò), non solo con trionfo dell’arme a
gloria dell’Onnipotente Dio, della nostra Signora Maria sua madre e di tutti
Santi del Paradiso, ma pure per convocare gli fedeli alle chiese, essendo
queste tutte diventate peggio di postribili e profanate. Ed ancora non puoter
darsi nemeno segno col tocco d’un campanello per riverir la gran Signora Maria
nostra avvocata, per dirsi l’Ave al consueto tempo. Di più non sentirsi né di
giorno, né di notte, sonare gli orologi che si retrovavano in città, tanto che
si campava peggio di bruti, nelle più aspre foreste e boscaglie, poiché in
queste talvolta s’intende il rimbombo delle campane, benché in parte remota.
Di
più non si tralascia altro flagello: che il Venerabile Sacramento si conduceva
agli poveri infermi senza decoro alcuno dal solo parocchiano, senz’alcun lume e
sociamento di persone (come pria), [e
nemmeno, ndr] col rimbombo dell’armonia del suono di tutte le campane della
città e di pifari, trombe e tamburri, avuto il segno che si conduceva
l’Altissimo Sacramento, oltre quelle campanelle che in appresso si suonavano
col canto di molti sacerdoti, salmeggiando a choro. E benché per gli abitatori
essendovi la necessità di chiamarsi il parocchiano, conducesse questo il
Venerabile a dritto camino dalla chiesa sin alla casa dell’infermo, nondimeno
ciò non s’osservava (sicome sino al presente non si costuma) dalli cappellani
degli tudeschi o italiani, mentre questi prese l’ostia santissima da qualunque
convento o chiesa. E quelle repostandosi nel petto non s’incaminano col camino
diretto agli infermi, ma colla loro soddisfazione, e volesse Dio che da me si
menstica. E questo fu flagello memorabile!
Le scarse
condizioni igieniche favoriscono il proliferare d’una epidemia Di più la
moltitudine di tanti regimenti e truppe di soldati, che stavano affollati in
picciole abitazioni speciali, mentre gli poveri soldati infermi sopra la nuda
terra, senza regola di cibo né di medicamenti, come pure per non pulirsi dette
abitazioni dall’immondizie delle quali erano ripiene, osservandosi inoltre
tutte le strade colme di lordure di tanti cavalli e sterchi sporchi. Oltreché
gli principali signori comandanti et officiali invigilando al servizio
militare, per complire col loro onore e dovere, non puoterono nemeno attendere
ad esser le loro abitazioni con ogni limpiezza. Si venne a corrompere l’aria di
tal maniera e forma che si rendette quasi pestilenziale. Perloché corse
un’epidemia molto maligna col timore che non s’aumentasse, mentre si scorgea
apertamente che tutte le febri correvano con sintomi putridi e maligni. E chi
cadeva ammalato difficilmente superavano il morbo. Anzi, in una casa morendo
alcuno, gli altri che in essa abitavano erano col medemo morbo tormentati o più
o meno, correndo generalmente in un’istessa infermità.
E
per quei che non potevano superare il morbo per l’attività pestilenziale dal
principio generata, et per quei che per miracolo si guarivano, e s’osservò che
l’infermità erano d’una stessa qualità maligna, generando quantità di vermini
nello stomaco e di più con parotide incurabili. Onde si curarono tutti alla
cieca dagli periti fisici, per non aversi conosciuto il morbo.
Medici senza
scrupoli approfittano delle difficoltà, facendosi pagare persino dai poveri,
malgrado fossero stipendiati dal Comune al fine di garantire a questi ultimi
l’assistenza gratuita Ed il peggio fu che nemeno si puotè avere la cura necessaria
dell’infermi, così per la mancanza delli medici, essendo molti, anzi tutti,
retirati nel Capo per il timore della vita. Ed inoltre chi con molte preghiere
ha potuto ottenere un fisico per una sol volta e visita, affinché si desse
riparo alla sua infermità, non l’ottenne per il giorno sequente, essendo tutti
spaventati di caminar per la città per timore delle bombe e cannonate che si
disparavano in ogni momento. E finalmente alcuni di questi medici, se pure per
tali s’avessero possuto comprendere, quando peraltro si stimavano nella sola
denominazione, si resero così ingordi, per non dir usurarij, del sangue delli
loro compatrioti che, per osservar di passaggio ed in piedi un povero infermo
un sol volta il giorno, sfacciatamente richiesero tarì dodeci. E di più per dar
un picciolo metodo, il più delle volte contrario al morbo, sopra il governo
d’alcun povero infermo, il quale non possedeva cosa alcuna, pure volevano tarì
sei. Ed alcune povere femine, che per la loro notoria povertà questuavano l’elemosina
innanzi e dentro le chiese in ogni giorno, pure non furono esentate dal
pagamento sudetto, e specialmente una poveretta nominata Domenica di Napoli,
vedova del fu Fortunato Giordano, carica di figlie, senza marito, che li fu
ucciso nella presente guerra d’un calabrese nomato Alessio [segue lacuna nella copia, ndr], per
causa di richiedere il pagamento del suo travaglio, e senza casa per abitare,
commorando in un casaleno discoperto solamente con una trave con canali,
dovette pagare a tal medico tarì sei per esser osservata come inferma. Et esso
fisico, senza vergogna alcuna, né scrupolo di sua coscienza, volse in ogni modo
l’esorbitante mercede, quando peraltro era obligato medicare gratis gli infermi
e poveri col salario deputato dalla città.
La Battaglia di Milazzo del 17 ottobre 1718 in un'inedita carta manoscritta coeva
(archivio privato)
Elevata
mortalità (dati invero fin troppo esagerati, comunque comprensivi dei caduti
nella battaglia del 15 ottobre 1718) tanto tra i militari quanto tra i civili Onde la
mortalità seguì in eccesso, numerandosi di soldati più di diecemila e degli
abitatori più di mille, perloché s’hanno recusato a sepellirsi nel convento de’
Padri Domenicani molti defonti per retrovarsi tutte le fosse piene per la molta
quantità di detti morti, anzi per necessità si sepellirono in confuso ed uomini
e donne. Il che mai si pratticò. E questo forse non fu flagello
dell’omnipotente e giusto Dio per li nostri misfatti.
Benché
avessero seguito molti e molti incidenti in generale in questa città, non di
meno si tralasciano solamente per aver avuto la commissione di descrivere il
seguente diario dal giorno in appresso notato con ogni attenzione, per quanto
viddi ed osservai e mi fu riferito da persone veridiche. S’intenderà notato con
tutta fedeltà e verità per notizia del lettore.
La carestia
angustia le truppe e la popolazione A 21 gennaro 1719, sabbato, seguendo
l’Assedio più stretto dalli Spagnuoli, colla scarsezza de’ viveri in città, per
non aver venuto da più giorni né da Napoli, né da Calabria alcuna sorte di
comestibili, per causa de’ tempi contrarij seguiti ed inoltre per li molti
corsari che tenevano gli Spagnuoli nel Faro di Messina, scorrendo tutto il mare
per la costa sino all’Isole di Lipari, perloché fu redotta la carestia a tal
termine che in questo giorno ogni soldato ebbe di provisione di solo biscotto
al peso di onze nove al sottile, specialmente dagli Tudeschi. Comprandosi dalli
cittadini e plebei un pane di monizione di malissima qualità con tutta la
caniglia, fatto al peso di onze ventiquattro al sottile, tarì uno e grana due.
E ciò con molto stento, non potendosi da tutti aver la quantità che si bramava.
Ed il vino bianco per gli officiali tudeschi a tarì uno e grana diece il
quartuccio, ed il negro a tarì uno e tarì uno e grana quattro. Di più la
penuria fu così grande che nelle piazze publiche si vendeva da molti paesani
alli soldati tudeschi a grana sei il quartuccio certa qualità stimata per vino,
quando peraltro realmente non era che aceto con due o tre parti d’acqua,
e[p]pure si beveva per la grave necessità.
Di
più non ritrovandosi nemeno una foglia d’erba per aver diventato tutto il Capo
terreno arido, così per la moltitudine di tante truppe, specialmente di soldati
a cavallo, oltre la quantità delli paesani che in esso s’avevano retirato,
alcuni soldati andavano in ricerca d’ortiche che si retrovavano in molti casaleni
d’alcune case innanzi demolite per servirsene per cibo. Insomma, molti e molti
abitatori, cittadini e plebei, in questa, più giorni restarono digiuni per
mancamento di vitto e si stava aspettando con molta ansietà alcun soccorso di
viveri da Napoli, essendo in generale così gli comandanti generali e tutte le
truppe come gli abitatori al maggior segno con molto cordoglio disperati.
Soldati
scheletriti per l’assenza di viveri E ciò nonostante non si trascurò
l’esercizio militare andando le truppe e squadre alle solite trinciere
scortate, così di giorno come di notte, dalli loro signori generali ed altri
officiali. Ma se avrebbe seguito tal penuria e carestia di viveri in città al
certo non sarebbe stata questa più difesa dalli soldati, poiché tutti gli
soldati - e per il molto travaglio e di giorno e di notte, e per dover
attendere alle sentinelle entrando di guardia, e per li gravi freddi (essendo
nel fervore del verno), e per non aver la solita provisione del pane, oltre del
quale non potevano comprare altro comestibile - rassembravano tanti scheletri,
non puotendosi trattenere più in piedi.
Elencazione e
siti delle artiglierie (mortai e cannoni) sia spagnole che austro-piemontesi Tanto più che
gli Spagnuoli proseguivano con ogni impegno il disparo de’ cannoni delli loro
bastioni e fortini, e di giorno e di notte, col gettito di quantità di bombe e
granati reali e morterate di pietre, delli quali se ne servivano più la notte,
danneggiando gli soldati nelle trinciere. E perciò non passava giorno che non
ne restassero alcuni morti e quantità di feriti in dette trinciere, continuando
sempre due batterie di mortari di pietre, l’una nel luogo nominato di Don
Marcello Cirino, vicino alla Porta di Messina di questa città, e l’altro in un
fortino alla ripa del mare da dietro, nel numero di diece, quattro per bombe e
sei di pietre. Tenendo pure due fortini con cannoni da battere, l’uno nella
Tonnara di Melazzo e l’altro nel Purracchito, col disparo continuo di notte e
giorno, tenendo in detti bastioni trentaquattro troniere tutte piene di
cannoni, perloché tutta la città è dell’intutto demolita.
Dalla
parte poi di essa città assediata si retrovano due mortari di pietre nel forte
nominato la mezzaluna, fuori la Porta di Messina, essendo quei di bombe che
esistevano di nessun servizio, per mancanza di ruote per esser disfatte e di
dette bombe. Solamente proseguendosi il disparo di cannoni continuamente per
retrovarsi quattro nel bastione di Santa Maria nella Cittadella, due nel forte
di Leonte fori la Porta di Palermo, tre nel forte nominato di San Rocco, cinque
nel forte nel giardino del convento di San Francesco di Paola, posti tutti in
città. Due nel forte e bastione di San Gennaro. Altri due nel forte del
Quartiero delli Spagnuoli ed altre due nel bastione di Ferrandina. In tutto al
numero di venti.
In
questo giorno - oltre la gran quantità di bombe e cannonate nella città gettate
e disparate, senz’aver fatto alcun danno a persona alcuna, attribuendosi a
miracolo o gran portento - disfatte bensì molte case